Viaggio in treno, direzione sud, sola.
La valigia, il libro, quel che resta di un penoso (e costoso) tentativo di un abbonamento dall’estero a Vanity.
Gli “i” attrezzi a portata di mano (e sempre sia lodato Steve Jobs, nostra salvezza e nostra dannazione).
Gallerie e montagne innevate, paesini da cartolina di Heidi e laghi, laghi, laghi. Ma quanti ne hanno questi? Hanno più laghi che persone.
Sognavo un treno silenzioso e, salvo qualche minuto del vicino dotato di bip-tastiera (mio sommo orrore), sono stata esaudita.
Sognavo la solitudine, i pensieri liberi e non frenati da nulla, se non dalla destinazione raggiunta che impone il brusco risveglio nella metropoli (e nella metropolitana, ma le cose sarebbero andate in modo diverso…) per raggiungere casa.
E questi sono i pensieri liberi, non necessariamente coerenti, logici o sensati.
Mi capita ogni volta che lascio Zurigo, per tanto o poco tempo che sia, di essere all’improvviso invasa dalla consapevolezza che a me dispiace. E tanto.
Lo sento lì, in un punto affondato dietro lo sterno, tra il cuore e lo stomaco. Lo sento mentre scendo dal mio tram per attraversare la strada ed entrare in stazione. Lo sento mentre il treno scorre fluido sulle rotaie e il capotreno scandisce in tre lingue “Destinazione: Milano Centrale”.
So che il dispiacere sarà dimenticato più tardi, o domani, quando i miei decenni di vita italiana torneranno a posarsi su di me come una seconda pelle e mi sembrerà di non essermi mai allontanata da quel suolo se non per qualche minuto, non certo per le settimane e i mesi trascorsi sotto un altro cielo, usando un’altra moneta, sforzandosi di capire un’altra lingua.
Quando, entrando in casa, nulla mi parrà più naturale e normale dello sdraiarmi sul divano, ritrovare i canali del digitale terrestre e l’acqua calda intermittente della caldaia a gas, o riporre i vestiti nell’armadio. Entrare nel mio supermercato preferito ed esclamare sottovoce, con una punta di inspiegabile esaltazione: “Qui sì che è una goduria fare la spesa!!!!”
Uscire di casa e non provare alcuna sorpresa nel sentire le parole che sento da quando sono nata, ritrovare persone che non vedo da tempo come se le avessi salutate solo ieri.
Accendere l’iPad e attivare Skype e dire “Ciao” ai maschi della famiglia che sono dall’altra parte, nell’altra nostra casa, sotto l’altro cielo e nell’altra lingua.
E volevo scrivere anche di altro.
Di come uno strano pomeriggio, trascorso a pulire dieci anni di corrispondenza email, si trasformi in una strana esperienza, le emozioni completamente sepolte nella memoria che tornano a vivere, la sorpresa per come i ricordi siano te e tu sia loro.
Per come ti ritrovi, ancora una volta, ad avere conferma che nessun dettaglio della tua esistenza è così casuale come sembra.
Che il giorno successivo ti capita di fare una telefonata che neppure qualche ora prima ti saresti sognata e capisci davvero cosa significhi “tornare a casa”.
Perchè i mattoni, i muri e le serrature non c’entrano proprio nulla.
Ma sarebbe troppo. E quindi basta così.